Dani d’Ingeo: visibilità queer e necessità di un nuovo ordine.

Dani d’Ingeo è un fotograf* e regista londinese nat* in Italia. Il suo lavoro è uno spaccato personale che si concentra prevalentemente sull’esperienza queer. Il risultato è un book fotografico in cui molti giovani si possono riconoscere.

Dani d’Ingeo, nel suo primo libro New Order usa un approccio sensibile per raccontare la sua realtà queer, esplorando questioni LGBTQ+ da angolazioni che vanno oltre il desiderio carnale e l’identità sessuale. Il libro è una raccolta di immagini che Dani ha scattato nel Sud Italia durante gli anni in estate, dove si manifesta la visibilità queer e l’amicizia .

La bellezza delle immagini è rappresentata dalla spontaneità degli scatti che riescono a immortalare momenti rubati di un esperienza collettiva di un gruppo di amici di Dani; la sua famiglia allargata.

Dani d’Ingeo è tornat* a scattare nei luoghi in cui da adolescente si è sentit* respint*, ma il risultato non è una rivincita, bensì una rappresentazione di una coesione tra la loro identità e i luoghi rurali di appartenenza, in maniera spontanea e autentica.

Quando hai capito che la fotografia sarebbe diventata un elemento cardine nella tua vita?

Ho sempre avuto un’inclinazione verso la fotografia. Fin dall’infanzia ero molto ispiratə da mio nonno e della sua pratica fotografica, e fu lui a regalarmi le prime macchinette automatiche da utilizzare nelle vacanze in mare o in montagna.

Consumavo rullini avidamente, fotografando la mia famiglia e ciò che volevo rimanesse indelebile di quelle estati.

Da adolescente acquistai la mia prima macchina fotografica reflex, abbandonata poi come tanti altri hobby in balia di mode e tendenze. Soltanto  riscoprendo la pellicola intorno ai 21 anni è iniziato il mio percorso artistico vero e proprio. 

Che ricordi hai quando ha deciso di lasciare l’Italia per Londra?

Il salto a Londra è avvenuto dopo l’obbligatorio passaggio per Milano. Ho avuto il privilegio e la fiducia da parte dei miei genitori di poter lasciare la mia natale cittadina pugliese per studiare in una grande città. Quando feci il mio timido coming out, mia mamma mi chiese se era per questo che desideravo volare via. Io le dissi di no, e ci credevo, ma penso avesse ragione lei.

A Milano ho scoperto la necessità di comunità e autodeterminazione. La libertà della vita notturna e dell’indipendenza, tramite pluralità.

Ma sentivo che qualcosa mancava, che tutto mi stava un po’ stretto, sopratutto me stessə. Non intendevo abbandonare l’Italia per sempre, anzi ero convintə avrei completato il mio breve corso di studi magistrale in fotografia e vi avrei fatto ritorno. Ma dopo un anno e mezzo avevo a malapena socchiuso il vaso di Pandora, e il meglio doveva ancora venire!

Tutti ragazzi gay italiani siamo passati attraverso fasi diverse delle nostra queerness in un paese che tutt’oggi non è poi così accogliente. Ci racconti della tua esperienza?

La mia esperienza come persona queer è iniziata molto prima che io me ne accorgessi.

Da bambino ero molto vivace e già da allora visibilmente queer. Il primo insulto che abbia mai ricevuto, “affemminato” [sic], fu durante i primi giorni della prima elementare, a cui seguirono molteplici declinazioni e rielaborazioni per i tanti anni a seguire.

Il resto è un mosaico di ricordi ed insegnamenti segnanti. Nel percorso di educazione sessuale alle medie, l’”esperto” invitato ci spiegò che il sesso eterosessuale (vaginale) portava alla gravidanza, e il sesso omosessuale (anale) risultava in AIDS.

Un’altra docente delle superiori ci introdusse al mondo delle donne transessuali (che lei erroneamente sosteneva fossero individui intersessuali), descrivendole come “coloro che si vedono agli angoli dei marciapiedi”.

Si può ben immaginare quanto traumatico fu per me la realizzazione di essere omosessuale, nonostante mi trovassi in un contesto familiare incredibilmente aperto ed accogliente.

Scoperte, riflessioni e sperimentazioni trans non erano allora ancora minimamente possibili, o immaginabili. Se la situazione politica degli anni passati e i timidi passi avanti in termini di diritti avevano aperto uno spiraglio di luce, l’oscurantismo dell’attuale governo di estrema destra non fa che farci ripiombare nel baratro. 

Ammiro la spontaneità dei tuoi scatti, come capisci chi dove e come fotografare qualcuno?

È un po’ un sesto senso, un istinto che col tempo ho imparato a fiutare e riconoscere. Mi piace trovarmi al posto giusto e al momento giusto, e soprattutto trovarmi “dentro” alle cose piuttosto che sbirciarle dall’esterno. Per questo motivo la mia pratica artistica con il tempo si è un po’ rinchiusa nel documentare la mia vita e quella di chi mi sta attorno, e mi piace molto che sia così. 

Ci parli del tuo nuovo libro New Order? Come mai questo tittolo? Credi esista un nuovo ordine o un riferimento alla band musicale o altro ancora?

‘New Order’ è il mio primo libro fotografico e contiene immagini prese da vacanze italiane durante gli ultimi anni. Il titolo è ispirato al film ‘Nuevo Orden’ (2020) di Michel Franco, che esplora un vicino futuro distopico in Messico in cui l’ordine sociale si ribalta causando caos e violenza.

Sebbene mi tenga ben lontanə da temi di violenza, credo fortemente che un nuovo ordine sia possibile, e il rovesciamento del sistema patriarcale sia necessario.

Un “nuovo”, rinnovato, ordine di persone queer che esistono alla luce del sole è già in mezzo a noi, anche quando vicini paesi europei dichiarano zone “LGBT free” o la nostrA presidente del Consiglio reputa inutile una legge anti-violenza. 

Chi sono i ragazzi che vengono scattati da te?

Come raccontato sopra, i soggetti presenti nel mio libro ‘New Order’ sono amici, la mia famiglia allargata. Sono i volti di persone visibilmente e liberamente libere, presenti semplicemente anche in spazi che non associamo direttamente con l’esperienza queer, quali gli spazi rurali o al di fuori dell’”underground”. Penso che il segreto per un’opera genuina siano anche rapporti genuini, motivo per cui finisco ad essere più a mio agio a scattare quelli che sono a loro agio insieme a me. 

Negli scatti del tuo libro c’è molta italianità qualce credi siano le cose che ci rappresentino maggiormente?

Passare tanti anni all’estero mi ha forse avvicinatə all’italianità più di quanto lo fossi quando ancora ci vivevo. Credo che nonostante le (spesso innecessarie e fittizie) differenze regionali e geografiche, nella cultura italiana ci sia un senso di convivialità e spontaneità molto singolare.

La capacità di star bene insieme e con poco è qualcosa che ho dovuto ricoltivare nei miei anni e nei miei rapporti londinesi, ed è ciò che maggiormente mi affascina da immortalare. Ugualmente la continua tensione tra sacro e profano è un costante terreno fertile, visivamente ed emotivamente. 

Chi sono i tuoi modelli di riferimento se ne hai qualcuno?

A livello fotografico il mio più grosso riferimento è l’opera di Nan Goldin, in particolare la sua autenticità così come lo stretto rapporto con tutti i soggetti ritratti nelle sue foto. Qualche anno fa poi ho scoperto il lavoro di Lisetta Carmi e la sua meravigliosa rappresentazione della comunità di trans e travestiti in giro per lo stivale italico. Sono anche un enorme appassionatə di cinema, e la costante esposizione a molteplici stili cinematografici sicuramente ispira moltissimo la mia visione e il mio modo di ritrarre. 

I tuoi scatti sono ricordi di momenti accaduti dove i soggetti sono liberi e si stanno divertendo, cosa speri di comunicare attraverso queste foto?

Gioia. Come un concetto reale e non astratto. Euforia, felicità di esistere e stare al mondo.

Cosa rappresenta il corpo per te?

Per me il corpo è allo stesso tempo tempio e parco giochi. È ciò di più sacro che abbiamo ma anche di più profano. Per noi persone queer è fondamentale. È il nostro modo di esprimerci ma anche di differenziarci, e spesso cambiarlo/autodeterminarlo è il più grande atto di ricerca della nostra felicità.

Credo che mostrarlo sia la cosa più naturale che possiamo fare, e allo stesso tempo la più sovversiva. Spesso il mio lavoro fotografico è stato giudicato come “erotico” “sessuale” “sporco”, ma io ho sempre visto il corpo come naturale, e anche in quanto tale politico.

Sessualizzare il corpo significa oggettivizzarlo. Mostrarlo è riappropriazione e libertà.